ELIO DE CAPITANI in RE LEAR di William Shakespeare
Traduzione Ferdinando Bruni
Uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
E con Mauro Bernardi, Elena Ghiaurov, Mauro Lamantia, Giuseppe Lanino, Viola Marietti, Giancarlo Previati, Alessandro Quattro, Elena Russo Arman, Nicola Stravalaci, Umberto Terruso, Simone Tudda
Produzione Teatro dell’Elfo
«Perché Re Lear? Perché tornare a Shakespeare per la nona volta (con i tre diversi allestimenti del Sogno) nei nostri cinquant’anni di storia? Re Lear è una montagna erta, rocciosa e corrusca: dalla sua cima avvolta da nuvole scure arrivano bagliori che illuminano le profondità di noi poveri esseri umani».
Ferdinando Bruni e Francesco Frongia introducono con queste parole la produzione di cui firmano regia, scene e costumi. Affidano a De Capitani il ruolo del vecchio e tormentato re, protagonista di un doloroso viaggio alla scoperta di sé. Accanto a lui Elena Russo Arman (Regan), Elena Ghiaurov (Goneril) e Viola Marietti (Cordelia) nei ruoli delle figlie, Mauro Berardi (Edgar/Borgogna), Mauro Lamantia (il matto), Giuseppe Lanino (Albany), Giancarlo Previati (Gloucester), Alessandro Quattro (Cornwall), Nicola Stravalaci (Oswald/Francia), Umberto Terruso (Kent), Simone Tudda (Edmund).
I fondali disegnati da Bruni circondano lo spazio con una danza macabra, una teoria di scheletri che indossano corone dorate per emergere dal buio della scena. Il trono del re che rinuncia al suo potere è un cumulo contorto di legno e metallo, che ingloba sedie, poltrone, lance e armi da fuoco. Sono macerie, come anche gli altri elementi che scandiscono la scena, attraversata da minacciose divise, da scarponi anfibi, ma anche da abiti da sera, dal nero dei quali si distaccano solo Cordelia e il matto.
Lo spettacolo ha debuttato il 18 ottobre 2023 al Teatro Morlacchi di Perugia nell’ambito della stagione del Teatro Stabile dell’Umbria (che lo ha co-prodotto) ed è poi andato in scena a Milano. Nella stagione 2024/25 viene riproposto in sede e in tour.
«Il viaggio per noi è iniziato ancora una volta dalle parole, dalla traduzione, cioè dal trasporto di suoni e senso da una lingua all’altra, da una remota pagina scritta alla tridimensionalità del palcoscenico. Tradurre vuol dire inoltrarsi in un testo come in una foresta di significati possibili, vuol dire farsi continue domande sul percorso da seguire, su quali strade scegliere, su quali bivi imboccare. Ogni traduzione è un’ipotesi, mai una certezza. È la stesura, passo dopo passo, di una mappa, è lo scheletro della rappresentazione. Alla partenza solo la bussola di due certezze: Shakespeare è sempre un ‘nostro contemporaneo’ (Jan Kott) e ‘il teatro è il luogo dove si ascoltano le parole che non si sentono altrove’ (Peter Brook). Quando traduciamo, cerchiamo di ascoltare il testo senza forzarne la chiarezza, ma senza compiacerci dell’oscurità, senza la tentazione di un inserimento artificiale di termini e vezzi della nostra parlata quotidiana, ma senza attenuarne la violenza evocativa. Quello che parla di noi nel Re Lear è contemporaneo perché è eterno, ci tocca da vicino perché è il racconto uno dei viaggi più strazianti dell’uomo verso la sua vera essenza.
Forse ora abbiamo l’età giusta per fare questo viaggio assieme ai quattro folli che attraversano la notte tempestosa più famosa della cultura occidentale, (‘uno di professione, uno per scelta, due per le torture subite; quattro corpi scomposti, quattro volti indicibili della stessa condizione’, come dice Albert Camus). Forse abbiamo l’età giusta per chiederci quanto il carico che trasciniamo con noi attraversando la vita sia fatto di cose importanti o sia un peso che ci impedisce di vedere ‘la cosa in sé’. La parabola di Lear, ‘forse la rappresentazione suprema del maschio europeo bianco’ (Harold Bloom), è un esempio terribile: trascinare il nostro tempo oltre il tempo che cambia, usurpare la vita bloccando il naturale passaggio fra le generazioni e trasformarlo in una guerra non può che portarci al tragico destino di follia e di cecità dello sventurato re e dell’accecato Gloucester, un altro vecchio il cui destino è tragicamente parallelo a quello di Lear. I due, nel corso della loro ordalia guardano spesso al cielo per invocare l’aiuto degli dèi, ma il cielo di questa tragedia è vuoto e gli dèi, se pure ci sono, tacciono. Non c’è paradiso, non c’è inferno. L’uomo è solo con la sua arroganza, la sua crudeltà, la sua disperazione e il suo dolore. La fragile speranza di una qualche consolazione sta solo nella consapevolezza del male che si è fatto, nell’accettazione del proprio destino senza facili vie di fuga, come nella scena che è il cuore del dramma, il finto suicidio di Gloucester e – sotto un cielo scuro e silenzioso, su questa terra dura dove il male dilaga – in brevi, strazianti bagliori di amore: l’incontro di Edgar con il padre accecato, la dedizione di Kent per il suo Re, la pietà di Lear per il suo Matto e infine l’insostenibile lamento del padre sul corpo di Cordelia morta. ‘Perché un cane, un cavallo, un topo devono vivere e tu non hai più fiato? Tu non ritornerai, mai più, mai più, mai più, mai più, mai più’. Ma Re Lear non è solo una parabola è anche un capolavoro di potentissimo teatro: i suoi personaggi non sono figure esemplari di una ‘Moralità’ medioevale, ma hanno la tridimensionalità della vita, anzi di una vita che dall’inizio del ‘600 ad oggi palpita ancora reale. La caduta di Lear nella follia ha un fortissimo valore metaforico, ma è anche la descrizione di una progressiva demenza senile di una precisione quasi scientifica, così come altrettanto preciso è il realismo psicologico con cui viene descritta la reazione di chi con questa demenza deve fare i conti. L’inadeguatezza crudele delle due sorelle maggiori, la concretezza di Cordelia, l’energia positiva di Kent, il sadismo di Cornwall e la straziante condizione dei due infelici figli di Gloucester hanno una verità che arriva direttamente dalla vita. E compito nostro sarà restituire sul palcoscenico il respiro di questa vita. Re Lear è un atto estremo di fiducia verso l’arte teatrale.
Abbiamo affrontato il nostro lavoro con umiltà artigianale, parola dopo parola, immagine dopo immagine, segno dopo segno, con la lentezza delle antiche botteghe. Per la pittura delle grandi tele che chiudono la scena, per i ricami sui costumi o per la costruzione il più possibile efficace di una frase. Con il nostro cuore e con le nostre mani. Il come, il dove, il perché si svilupperanno prima dalla relazione fra testo e lettura registica, poi fra quest’ultima e gli attori, infine nel coinvolgimento del pubblico nel momento finale della rappresentazione. In questi passaggi l’opera, già notevolmente stratificata, si arricchirà di nuovi colori ed espressioni. Saranno i corpi e le voci degli attori a chiudere il cerchio. Re Lear vivrà nella sintesi unica dell’essere umano».
Durata dello spettacolo: tre ore incluso intervallo